Dall’inizio degli anni 2000, i mercati e i legislatori si sono prodigati per mettere lo sviluppo sostenibile al centro delle agende delle istituzioni internazionali. Questo nuovo approccio, più ambizioso, ha spinto a ripensare il quadro tradizionale dell’ordine giuridico in tutti gli Stati membri dell’UE.

Di fronte alle sfide ambientali e sociali, accentuate dalla globalizzazione dei mercati, gli Stati possono, nell’ambito dei loro poteri, affrontare alcune delle conseguenze della globalizzazione economica e della forte concorrenza internazionale, ma non sono più in grado di affrontare problemi che hanno ormai assunto dimensioni transnazionali.

La promozione dello sviluppo sostenibile deve essere un imperativo non solo per gli Stati, ma anche per la comunità, internazionale ed europea, e in particolare per le grandi imprese, che sono gli attori più importanti del progresso economico e tecnico.

Da qui la necessità di creare le condizioni per incoraggiare queste entità economiche a prevenire e affrontare i possibili rischi di impatti negativi sui lavoratori, i diritti umani, l’ambiente, la corruzione, i consumatori e la governance aziendale legati alle loro attività, alla catena di approvvigionamento e alle relazioni commerciali.

Prospettiva internazionale

Il diritto, i principi e gli standards internazionali hanno, di fatto, ampiamente contribuito alla popolarizzazione della nozione di sviluppo sostenibile e alla sua diffusione, e infine al suo emergere sulla scena internazionale come “paradigma”.

Già nel 2000, il Global Compact – un’iniziativa lanciata da Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, al World Economic Forum del 1999 – invitava i leader delle imprese a unirsi all’Organizzazione per creare un “patto globale” basato su valori e principi comuni per dare un volto umano al mercato globale e contribuire alla costruzione di un’economia più sostenibile e aperta.

Dal 2011, i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani richiedono agli Stati di rispettare, proteggere e attuare i diritti umani e le libertà fondamentali. Richiedono anche alle imprese commerciali – transnazionali o meno, indipendentemente dalle loro dimensioni, settore o posizione – di rispettare le leggi e i regolamenti applicabili e di porre rimedio agli impatti negativi sui diritti umani in cui sono state coinvolte.

Le aziende sono quindi chiamate a esercitare la dovuta diligenza in materia di diritti umani e a prendere misure appropriate per prevenire, mitigare e, se necessario, rimediare agli impatti negativi delle loro operazioni.

Per permettere alle imprese di allineare le loro strategie ai propri dieci Principi Guida, le Nazioni Unite hanno stabilito, nel 2012, una Guida che fissa un quadro di riferimento allo scopo di «proteggere, rispettare e riparare» i diritti dell’uomo[1].

Il concetto di dovuta diligenza in materia di diritti umani è stato precisato e sviluppato nel 2011 nelle linee guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali. Alcuni anni dopo, nel 2018, l’OCSE ha adottato la Guida sulla responsabilità in materia di diligenza per una condotta responsabile delle imprese, che ha lo scopo di fornire un sostegno pratico alle imprese per l’attuazione delle linee direttrici dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali attraverso una semplice spiegazione delle raccomandazioni concernenti il dovere di diligenza e delle disposizioni relative.

Nel 2015, le Nazioni Unite hanno deciso di andare oltre. Così, nel quadro dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, hanno fissato 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) da raggiungere nei prossimi 15 anni. Questi obiettivi sono destinati a guidare gli Stati, le comunità, la società civile e le imprese nella preparazione di un futuro che assicuri stabilità, un pianeta sano, società giuste, inclusive e resilienti, ed economie prospere

Nello stesso anno, alla COP-21 di Parigi, il 12 dicembre 2015, le Parti dell’UNFCCC (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1994) hanno raggiunto un accordo storico per limitare il riscaldamento globale a ben meno di 2°, preferibilmente 1,5° Celsius, rispetto ai livelli preindustriali.

L’Accordo di Parigi è chiaramente il primo accordo globale universale sul clima per adattare ed espandere la lotta contro il cambiamento climatico, accelerare e scalare le azioni e gli investimenti necessari per un futuro sostenibile a basse emissioni di carbonio, e assistere i paesi in via di sviluppo nei loro sforzi di mitigazione e adattamento al clima, stabilendo al contempo un quadro trasparente di monitoraggio e reporting per gli obiettivi climatici che sono stati fissati.

Tutte queste iniziative internazionali e gli standard che ne risultano – in particolare la Guida ONU del 2012 e la Guida OCSE del 2018 – forniscono un nuovo quadro di riferimento per le imprese.

I testi citati non si limitano ad enunciare principi o standards astratti, ma incoraggiano – e talvolta impongono – alle imprese di adottare un comportamento più responsabile, di adottare politiche specifiche che devono essere attuate all’interno dell’azienda e nelle relazioni con gli stakeholder, e di gestire i rischi associati alla loro attività.

Evoluzione del quadro europeo

In tale contesto, l’Unione europea svolge un ruolo cruciale. Essa può rappresentare un livello d’azione intermedio che, in un programma di sviluppo sostenibile all’orizzonte 2030, potrebbe colmare le lacune dell’azione internazionale.

Sono state intraprese diverse iniziative per far progredire la transizione verde e proteggere i diritti dell’uomo in Europa. In effetti, la direttiva 2014/95/UE, relativa alla pubblicazione di informazioni non finanziarie per alcune grandi imprese, ha rappresentato una svolta storica.

Per la prima volta, le grandi imprese sono state obbligate a includere nel rapporto di gestione una dichiarazione non finanziaria (DNF) contenente, tra l’altro, informazioni sugli effetti attuali o prevedibili delle loro attività sull’ambiente (uso di energia rinnovabile, emissioni di gas a effetto serra, inquinanti atmosferici, ecc.).

Nello stesso senso, la Direttiva 2017/828/UE – che modifica la Direttiva 2007/36/CE sui diritti degli azionisti – incoraggia l’investimento a lungo termine degli azionisti nelle imprese europee e rafforza il loro diritto di controllo sulla politica di remunerazione dei dirigenti.

La politica di remunerazione deve precisare in che modo essa contribuisce alla strategia commerciale dell’impresa, ai suoi interessi e alla sua sostenibilità a lungo termine. Essa deve comprendere gli elementi, fissi e variabili, della remunerazione che sono attribuiti ai dirigenti e indicare i criteri finanziari e non finanziari utilizzati per l’attribuzione della remunerazione variabile (compresi, se del caso, i criteri ESG – ossia i criteri ambientali, sociali e di governance).

Alla fine del 2016 la Commissione europea ha istituito un gruppo di esperti ad alto livello sulla finanza sostenibile. Il 31 gennaio 2018 il gruppo di esperti ha pubblicato il suo rapporto finale, in cui ha concluso che la finanza sostenibile deve soddisfare due imperativi: 1) migliorare il contributo del sistema finanziario alla crescita sostenibile e inclusiva finanziando le esigenze a lungo termine della società. 2) rafforzare la stabilità finanziaria integrando i criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) nel processo decisionale in materia di investimenti.

In linea con l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico e il Programma di sviluppo sostenibile 2030 delle Nazioni Unite, il Piano d’azione adottato dalla Commissione definisce la strategia dell’UE in materia di finanza sostenibile. Esso mira a riorientare i flussi di capitali verso investimenti sostenibili al fine di conseguire una crescita sostenibile e inclusiva, a integrare sistematicamente la sostenibilità nella gestione dei rischi, e a promuovere la trasparenza e una visione a lungo termine nelle attività economiche e finanziarie.

Il Piano d’azione dell’UE rappresenta un primo passo fondamentale nella transizione verso la sostenibilità. Per essere efficace deve essere completato da altre misure da adottare in altri settori in concertazione con le parti interessate.

A tal fine, negli ultimi quattro anni la Commissione europea ha svolto diverse attività di consultazione con gli attori economici e le parti interessate, e ha commissionato due studi sui doveri dei dirigenti e sulla governance sostenibile dell’impresa (luglio 2020), e sui requisiti di vigilanza nella catena di approvvigionamento (febbraio 2020)[2].

Proposta di direttiva sul dovere di diligenza in materia di sviluppo sostenibile delle imprese

A seguito di tali consultazioni, e tenuto conto del fatto che altri Stati membri dell’UE si sono già dotati di disposizioni molto vincolanti in materia di dovere di vigilanza (Francia, Germania e Norvegia hanno già adottato leggi specifiche, mentre i Paesi Bassi e il Belgio lo stanno facendo), la Commissione europea ha presentato il 23 febbraio 2022, una proposta di direttiva europea che impone un obbligo di diligenza per alcune imprese.

Il testo mira a stabilire norme sugli obblighi delle imprese riguardanti: 1) gli effetti negativi reali e potenziali sui diritti dell’uomo e sull’ambiente, per quanto riguarda le loro operazioni, le operazioni delle loro controllate e le operazioni della catena del valore condotte da entità con le quali l’impresa ha una relazione commerciale; 2) la responsabilità in caso di violazione di tali obblighi.

L’obiettivo perseguito dalla Commissione è di armonizzare il diritto europeo in modo da evitare disparità tra i paesi dell’UE in settori divenuti di importanza cruciale sulla scena internazionale.

Il campo di applicazione della proposta di direttiva è molto ampio, il testo si applica a due gruppi di imprese:

  • Gruppo 1: le imprese con più di 500 dipendenti e un fatturato netto di oltre 150 milioni di euro a livello mondiale.
  • Gruppo 2: le imprese con più di 250 dipendenti e con un fatturato netto mondiale superiore a 40 milioni di euro, a condizione che tale fatturato sia stato realizzato nei seguenti settori: silvicoltura, estrazione di risorse minerarie (compreso gas naturale, carbone…) ecc. Per queste imprese, le norme cominceranno ad applicarsi due anni più tardi che per le imprese del Gruppo 1.

Ciò riguarda anche le imprese di paesi terzi che operano nell’UE e che realizzano sul territorio dell’UE fatturati le cui soglie sono allineate a quelle dei Gruppi 1 e 2.

Le microimprese e le piccole e medie imprese (PMI) non sono invece direttamente interessate dalle norme proposte dalla Commissione europea. Tuttavia, il testo europeo prevede di adottare misure di sostegno a favore delle piccole e medie imprese (PMI) che potrebbero essere indirettamente interessate da queste nuove disposizioni.

Per rispettare l’obbligo di diligenza in materia di sostenibilità, le imprese devono conformarsi alle disposizioni di cui agli articoli da 4 a 11 del testo europeo e adottare misure di dovuta diligenza (programmi di conformità, politiche e procedure specifiche, mappatura dei rischi, ecc.) volti a:

  • Integrare il dovere di vigilanza nelle politiche interne dell’impresa
  • Individuare gli effetti negativi, reali o potenziali, sui diritti umani e sull’ambiente
  • Prevenire e minimizzare gli effetti reali o potenziali adottando misure di controllo dei rischi
  • Stabilire e attuare una procedura di pianta
  • Monitorare regolarmente l’efficacia della politica e delle misure di vigilanza attuate
  • Comunicare pubblicamente il dovere di dovuta diligenza.

La Commissione si impegna ad adottare modelli di clausole contrattuali per consentire alle imprese di conformarsi alle misure previste in particolare dagli articoli 7 e 8 del testo europeo[3]. Prevede inoltre di adottare delle linee guida sul modo in cui le imprese devono adempiere ai loro obblighi di dovuta diligenza, anche per settori specifici o impatti negativi specifici[4].

La proposta di direttiva precisa che le imprese appartenenti al Gruppo 1 devono disporre di un piano che consenta di garantire che la loro strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento climatico a 1,5 ºC conformemente all’Accordo di Parigi[5].

Prevede inoltre che gli Stati membri designino un’autorità incaricata di controllare e imporre sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in caso di violazione dei nuovi obblighi di dovuta diligenza. A livello europeo, la Commissione si impegna a istituire una rete europea di autorità di controllo che riunisca i rappresentanti degli organismi nazionali per garantire un approccio coordinato.

Infine, in materia di responsabilità civile, la proposta di direttiva stabilisce che gli Stati membri devono garantire che le vittime ottengano il risarcimento dei danni derivati dal mancato rispetto dei nuovi obblighi in materia di dovuta diligenza.

gp@giovannellapolidoro.com

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[1] Guide d’utilisation des Principes directeurs des Nations Unies relatifs aux entreprises et aux droits de l’homme dans la recherche et le plaidoyer sur les entreprises – Une guide pour les organisations de la société civile.

[2] Study on directors’ duties and sustainable corporate governance (2020) https://op.europa.eu/fr/publication-detail/-/publication/e47928a2-d20b-11ea-adf7-01aa75ed71a1

Study on due diligence requirements through the supply chain (2020) https://op.europa.eu/fr/publication-detail/-/publication/8ba0a8fd-4c83-11ea-b8b7-01aa75ed71a1

[3] v. articolo 12 della proposizione di Direttiva sul dovere di vigilanza

[4] v. articolo 13 della proposizione di Direttiva sul dovere di vigilanza

[5] v. articolo 15 della proposizione di Direttiva sul dovere di vigilanza