Il populismo è diventato il grande protagonista della vita politica di vecchie democrazie come di democrazie più recenti. Questo fenomeno tende oramai a globalizzarsi, a diffondersi non soltanto in Europa, ma anche in altre regioni del mondo: negli Stati Uniti, in America latina, in Asia passando per il Medio Oriente.

In generale, si potrebbe dire che il populismo dipende da fattori congiunturali. Di fatto, si sviluppa in occasione di una crisi economica, sociale o morale collegata ad una depressione economica o a degli scandali politico-finanziari.

Questi eventi offrono l’occasione ai leaders populisti di mettere in atto una strategia politica fondata su una dicotomia molto rigida.

Da una parte, le élites corrotte o complici con l’Establishment (i politici, gli intellettuali, i dirigenti delle grandi imprese, i banchieri, l’Unione europea, le organizzazioni  internazionali, le ONG, etc), che sono considerate alla stregua di nemici. Dall’altra parte, il popolo, puro e onesto, che subisce i contraccolpi negativi di eventi maggiori.

Minacciato dalla mondializzazione, dalla dittatura dei mercati finanziari, dal cambiamento climatico, dall’evoluzione tecnologica, dal rallentamento della crescita economica, dall’ineguale ripartizione della richezza, dall’esclusione dal mondo del lavoro, dall’immigrazione, dagli stranieri, dai Mussulmani, dai Roms e dagli Ebrei, esso tende a chiudersi e a regredire.

Non stupisce allora che il popolo vittima di queste minacce (interne e esterne), deluso dagli uomini politici finisca per rimettere in questione la capacità dei partiti tradizionali a innovare e a proporre delle riforme credibili per migliorare la vita di tutti, rilamciare la crescita economica e rinnovare la partecipazione dei cittadini.

Il populismo può essere di destra o di sinistra oppure né di destra né di sinistra. Ma il populismo dominante oggi, è un populismo che si ricollega all’ideologia dell’estrema destra in ragione della sua vocazione nazionalista, xenofoba e razzista.

In effetti, i diversi movimenti populisti presentano dei tratti comuni per quanto riguarda il modo di prendere, di esercitare e di conservare il potere. Non rimettono in questione il gioco democratico e la rappresentanza parlamentare, ma si servono della democrazia e della libertà d’espressione che questa garantisce per mettere in atto la loro strategia politica e il loro repertorio demagogico.

Diversamente da quello che i loro discorsi antisistema e anti-elite lasciano intendere, i leaders populisti non sono dei novizi : Matteo Salvini, in Italia, ha una lunga carriera politica alle spalle, anche se ama far credere di essere un nuovo arrivato.

Una volta affermatisi al potere, i leaders populisti continuano a tenere gli stessi discorsi demagogici – basati essenzialmente sulla manipolazione delle emozioni e delle informazioni e sulla delazione dell’avversario – come se fossero sempre in campagna elettorale.

Per comunicare direttamente con il popolo utilizzano soprattutto i social media, che hanno la capacità di renderli immediatamente popolari grazie a un lavoro di marketing politico molto ben organizzato.

Tuttavia, messi davanti alle questioni di fondo, i leaders populisti mostrano chiaramente tutti i loro limiti e contraddizioni. Sono incapaci di risolvere i problemi della vita quotidiana o di concepire qualsiasi tipo di riforma.

Di fronte ai loro imsuccessi, i leaders populisti hanno la tendenza ad accusare l’opposizione parlamentare, le influenze straniere, i poteri forti e altri fantomatici nemici di impedirgli di attuare il loro programma politico.

Il divario tra le promesse e i risultati ottenuti è così importante che si ha la sensazione che il populismo abbia poche chances di diventare un metodo normale di governo.

Esso è destinato a rimanere un movimento di pressione con il quale la democrazia deve prendere l’abitudine a confrontarsi. Le recenti elezioni regionali in Emilia Romagna, in Italia, sembrano confermare queste conclusioni.

L’estrema destra di Matteo Salvini è stata battuta dalla sinistra. Questo risultato è stato possibile grazie soprattutto alla mobilitazione del movimento popolare delle “Sardine”, che da qualche mese mobilita le piazze delle principali città italiane.

La sconfitta di Salvini è un segnale forte che dimostra, una volta di più, che il populismo non è invincibile. E’ chiaro che per vincere questa sfida, bisogna riformare in profondità le nostre democrazie liberali, allargare la participazione della società civile, ridare gusto alla politica, adottare delle riforme strutturali, ridurre la disoccupazione e le ineguaglianze, e organizzare la transizione ecologica.

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